Alfonso Guida, la poesia come preghiera - La Gazzetta del Mezzogiorno

2022-10-26 10:58:40 By : Ms. Ruth Lin

BARI - La poesia di Alfonso Guida, materiale celeste che scava e rinnova l’effettuale, spoglia la realtà della sua maschera triviale, raccontandone i poli estremi in un manicheismo sovversivo. La sua preghiera è qualcosa che accoglie. A San Mauro Forte abbiamo avuto modo di parlare col Sud; con la sua voce più cristallina. “Il Tassidermista” è il titolo della raccolta di poesie, edita per “Terra d’ulivi edizioni”, di cui qui parliamo.

Alfonso, l’imbalsamatore chi è? È il poeta che eterna il suo sguardo, dunque la parola? È chi mantiene in vita la morte? Il tassidermista è una figura antica, remota. Affonda le radici nella mia prima infanzia. In Via Gianturco, la nostra prima casa in affitto, mia madre collezionava sul ripiano di una cristalliera, in soggiorno, animali imbalsamati con cui intrattenevo strani e muti dialoghi. Uccelli colti nell’espressione della fine, dell’estremo istante, tra le tacche e i segni della soglia, del passaggio che parlava una lingua densa e segreta. La volpe ghignante sul ramo di quercia, il picchio azzurro, il fagiano, affusolato ed elegante. Figure che per un bambino incantato erano la lingua di un’origine che si proiettava, per compiersi, nella lingua della morte e del suo varco. Figure destinate a raccontare l’eternità attraverso la storia della storia, attraverso la polvere degli accumuli temporali assottigliati in un’espressione, in un dire sfingeo e cristallizzato che spronava alla conoscenza inquieta e inquietante della prima esperienza dell'esterno, del mondo, dell’“Alter”.

Afferma: «Se è il caso che passi alla storia, vorrei passarvi come eremita, non come poeta». Infatti, ne “I poeti” scrive: «dicevo ieri che siamo padri del deserto». Cosa l’ha mossa a questa scelta generosa? Offrirsi al silenzio. Cosa cerca nel silenzio? Cosa vede? Il silenzio è stato una conquista. Vivo nel silenzio totale quotidianamente. San Mauro è un paese vuoto, meno di mille abitanti, è case crollate e gente a stretto contatto con la terra e gli animali. La natura scricchiola, crepita, sibila, mormora. Parla attraverso i cunicoli di una realtà taciturna. Senza il silenzio non può nascere la parola. Il silenzio è il palco su cui la parola canta. Senza il silenzio non c’è possibilità di parola o di visione. La poesia del silenzio è diversa dalla poesia delle città. È molto più profonda. Il silenzio della parola è necessario come ferita attraverso cui lasciar passare la luce del mondo rivelato.

La solitudine è un’arma bifronte: ferita e libertà. In che modo agisce in lei? La solitudine è la mia condizione di nascita. Bisogna stare soli per scrivere. Non frequento nessuno nel mio paese. Ci sono distanze tra me e questa gente. Non ci sono persone colte. I giovani studenti sono piuttosto spinti verso l’esterno, la carriera. Esigenze che io non ho mai avuto. Purtroppo, non ci sono più i vecchi, non c’è più "quanto ama il calore" diceva Kokoschka. Della solitudine sono molto geloso. Non è un dramma, è una dimora.

Ci racconti della poesia “Gide”: «Ieri, sdraiati sotto la grondaia, / bevemmo pioggia. Ieri il grano era ricco e cresceva / sulle porte del paese, un gelsomino, il caprifoglio, / campanelli d’allarme a ogni passo. E le capre / giocavano, impazzite, / con le orecchie lunghe e la razione di cicuta. / “Ma i doni ricevuti, dissero, / noi non li abbiamo comprati”. / Ieri, sdraiati sotto la grondaia, / bevemmo pioggia. Ieri il grano era ricco e cresceva.». «Famiglie, serrati focolari, io vi odio». André Gide mi ha insegnato la via, quello che sentivo d’essere: l’immoralista. Questa lirica risale ai miei amori giovanili; periodo, quello della giovinezza, in cui leggevo anche Penna e desideravo visitare i paesi africani: Marocco, Algeria, Tunisia... Luoghi, appunto, esplorati da Wilde, Gide… Quando dico: «E le capre / giocavano, impazzite, / con le orecchie lunghe e la razione di cicuta.», riprendo la Rosselli e fotografo la morfologia faunistica di San Mauro. Ne “La libellula”, Amelia Rosselli ci regala questa immagine inquietante del coniglio con le orecchie lunghe. Io, invece, attribuisco questo tratto fisionomico alle capre. Esseri di casa mia. La cicuta, nella lingua di San Mauro, inoltre, si chiama: «’mbriacul», «erba che ubriaca». Le capre vanno matte di cicuta. Sterrano le radici e ne succhiano il midollo, in parte (loro conoscono le dosi), quando sono stanche e hanno desiderio di ebbrezza. Mi chiedevi anche cosa fosse il dono. Il dono è null’altro che la vita. Un dono che, paradossalmente, paghiamo. Di questo paradosso parlano Carroll, e Deleuze in “Senso e non senso”.

«Mi nasconda la notte e il dolce vento […]» diceva Sandro Penna in una delle sue più belle liriche. Lei, in “La mia casa” dice, invece, «uomo nascosto allo stupore     uomo che il sole nasconde»: cosa la lega a Penna? Penna, Pasolini e Dario Bellezza hanno segnato con la loro voce e le loro posizioni biografiche e linguistiche l’intera mia giovinezza. Il mio è stato un lungo percorso di apprendistato poetico ed esistenziale, attraverso i nomi più importanti della cosiddetta «scuola romana». Mi scrutavo, per costituzione interiore squisitamente naturale, genetica, nel crepuscolo screziato di malattia del primo Novecento romano, Corazzini ad esempio.

È iniziata da qui la mia capacità di suggestionarmi in presenza di un testo. Penna è stato l’azzurro del mare, come dice in un suo epigramma, quel desiderio di trasparenza e visibilità attraverso la parola, ed è stato il primo contatto mediato dall'endecasillabo con la mia natura, la sessualità.

Nella sua poesia c’è la vera natura; ormai sparuta. Una tradizione che deriva da Plinio, fino a Sannazaro e Pascoli. La ricerca ornitologica e botanica, il poter dare un nome a ciò che la circonda, porta a rinominare anche il significato, vero? La realtà diventa simbolo e varco, no? Il paesaggio lucano è piante e uccelli, questi sono gli abitanti liberi del grande spazio. I poeti di cotta parlano di ascensori, scale mobili, citofoni. Queste realtà moderne qui non esistono. Nel silenzio totale passano falchi che mangiano grilli e allodole, nibbi, che nel mio dialetto, come nel dialetto tursitano di Albino Pierro, si chiamano «cristarelli», «piccoli cristi».

Lo spirito del paesaggio nudo e rupestre affiora dove l’uomo è rimasto indietro, quasi in un tempo oscillante tra preistoria ed eterno.

Non avendo altro intorno, ho imparato a conoscere ciò che intorno mi era stato concesso: linfe, clorofille, i nomi delle infiorescenze. Questa via avrebbe interessato i poeti friulani, forse, o marchigiani, Zanzotto, l’occhio onnivoro di Zanzotto.

Anche il suo legame con Beppe Salvia è fondamentale. Assolutamente sì. Ascolto la stessa musica di Beppe Salvia, sai? I Japan, il post-punk, Victoria Spivey e il jazz degli anni ‘20/’30. Salvia è la dimostrazione di come si debba avere una lingua. È pura controtendenza.

«Quello che chiamo Dio / è la non ignoranza di me», «Quello che chiamo Dio / è uomo che scende / dove rimane». Lei resta, riconosce, ed è immagine di un mondo che non è e dovrebbe essere. Per questo, è un modello. Il mondo, oggi più che mai, s’ignora, non scende e non rimane. Lei media il cielo e la terra. In che modo vive la religione? Sono nato in una famiglia molto religiosa. Dio è quanto di più intimo io abbia. Essere quasi senza attributi, puro. Assoluto. È come se per tutta la vita non avessi fatto altro che cercare Lui, anche nella ferita che ho aperto per entrare nel mondo.

Un secondo cielo interiore, diceva Teresa d’Ávila. Il mistero che non è perduto. Forse, questo. Ho amato Dio attraverso Giordano Bruno. In ogni caso sono estraneo alle faccende spirituali del potere. Il potere non mi interessa, in ogni sua forma.

Lei è di marmo e roccia carsica, argilla e ambra e, titano così mescolato, nella sua poesia, porta il peso del cielo e dell’averno, della terra e dei morti. Cosa è, per lei, la morte? La morte è il pensiero che ho omesso per tutta la vita, una realtà lontana, eppure radiosa nel senso di «irradiante». La morte è la vetta che illumina la mia parola.

«E ie megg arrcrduat ca chest ie na lengua / vcen al murt cchiù d lauta lengua» («e io mi sono ricordato che questa è una lingua / vicina ai morti più dell’atra lingua»). “La lengua mammarol”, «morbosamente materna», la lingua di San Mauro, è una chiave che permette il passaggio. Cosa significa che il paese sorge sui morti? Il paese sorge sui morti perché poggia sulla passerella dove sfilano gli esistenti della memoria. La storia da qui passa come un treno lentissimo che non lascia tracce.

San Mauro è un paese lontano.

«Puoi capire se resti, / se resti seduto tra le cose». Lei scrive ciò che non si vede e disegna geometrie di un mondo che collega ma, in verità, fa molto di più. In lei, nella sua poesia, che è un’orazione antica, nella sua arte, ci sono tutte le arti. E questo è un tratto che contraddistingue solo chi è immerso, sinceramente, nello scorrere dell’esistenza; chi vede:   (orazione) «Solitudine mia, / andremo al mare, cespugli nel sale, / grida di bambini / metà innamorati metà giustizieri. / I sassofoni, poi le pizzerie. E dove sarà gregge? E dove tram? / Sui fili camicie gonfie di scirocco, solitudine mia / viva di un ricordo che si moltiplica. E dirlo: /essere tristi senza temere. Così passano i giorni / pieni di uccelli e topinambur». Franco Pinna sarebbe orgoglioso delle sue inquadrature: parole che riempiono, parole che, finalmente, dicono. Il suo canto è sudore, lentezza, cadenza, fatica. Lei riconosce l’endecasillabo ad orecchio. La sua voce è una voce assoluta. Una eco carsica che deve essere detta. Esperienza e vissuto. La verità.

Come attraversa l’amore, Alfonso? L’amore per me è qualcosa di assoluto. E l’assoluto, adesso, io lo trovo solo nell’avventura, in ciò che non resta. L’assoluto è nell’effimero. Nel volo, nella carezza. Nella capacità di isolare l’istante. La relazione è una diga. L’amore che ho dentro è un amore che posso dare a tutti. Posso essere la donna di tutti.

La sua poesia è una poesia difficile da comprendere. Sintassi sciolta, concetti all’apparenza disseminati, poi prende forma, rileggendo e rileggendo, come se l’incantesimo si aprisse. Abbiamo bisogno di riprendere a rispettare il nodo? Anche la punteggiatura, le parentetiche dicono in lei. Come in “(orazione)”. È un modo per avvertirci della presenza di un mondo altro in cui si colloca questa poesia? Le parentesi nei miei testi sono verifiche indicative, diceva Mario Benedetti; di te, anche di te, della tua presenza. Entrano voci straniere nel mezzo del cammino di scrittura, interferenze insopprimibili. Ascolto. Il gesto dell’ascolto è il gesto di chi conferisce dignità.

«Non sentirai la gioia / né il desiderio di ritorno. Il nulla sarà una minaccia. / Lo vedrai camminare al tuo fianco, / sbucare d’improvviso come per stupirti. / Dovrai stare attento. È sempre di un passo avanti il nulla / è sempre di un passo avanti». Questo lacerto poetico proviene da “La leggenda dell’ape pronuba”, una lirica di straordinaria bellezza. Il nulla è un rischio. La spaventa? Senza il Nulla non ci sarebbe la visione. Senza lo spazio smisurato del buio individuale e cosmico, non ci sarebbe la tua nascita, questa musicale ferita.

Cos’è il mal d’aurora? Maldaurora viene da Maldoror, dai Canti di Lautreamont che leggevo nei miei vent’anni a Roma, quando studiavo Lettere a La Sapienza. Notti intere a decifrare il proteiforme essere che dava aspetto e figura al misterioso autore francese. Il male d’aurora è il male di chi non può stare né in qua né in là, ma dentro il taglio. Più che l’effetto di una separazione, io sono l’incarnazione di un taglio cesareo. Anche nella realtà. Mia madre ha sofferto molto partorendomi, ha avuto bisogno di trasfusioni di sangue. Non volevo nascere, uscire. Sono rimasto tra le due metà segnate dal sorgere del sole. Sono stato volto con la faccia alla luce e la nuca nel buio.

«Io mi sentivo suo in una festa dove la gioia era il mio completo spossessamento. Lui diceva mangia, mangia. Aveva l’idea del membro come frutto e chiamava incenso (“ingiuinz”) il seme, come nel dialetto del paese». Traduciamo questa citazione, qui, proveniente da una parte del libro, l’ultima, affascinante. Qui parla di sé. Qui parla del suo sentirsi diverso e unito nell’uguaglianza. Del sentimento non arginabile che la guida. Come vive la sua sessualità? Vivo la mia sessualità liberamente. Non mi sono mai curato dell'ambiente arretrato, retrogrado, in cui vivo. Anche nei paesi oggi l’omosessualità è piuttosto diffusa. Si nascondono, si vergognano, devono proteggere le loro famiglie. Sono più gli etero oggi a voler sperimentare una loro natura tardiva. Non mi piace la parola «gay». L’omosessualità per me è stata una dura battaglia familiare e sociale, senso di colpa, di vergogna, il famigerato senso del peccato quando viene congiunto al mistero dell'amore. Non rivendico diritti, perciò non sono gay. La rivendicazione di un diritto, scriveva sapientemente Simone Weil, è solo un’altra forma di violenza. L’omosessualità, per come l’ho vissuta io, s’incastona inevitabilmente nel discorso ampio sul Sacro: il sacro dei corpi, la luce e l’ombra della carne, il desiderio, la perversione.

Il cielo, dal ballatoio di casa sua, qui a San Mauro, è vicino come se ti volesse tendere la mano. Com’è la notte? Le stelle? La notte dal mio balcone giunge umana e antica. Le stelle sono forze magnetiche che decidono buona parte del mio umore psichico. Così bello, direi oggi, il transito, l’attraversamento della "Noche Obscura" di San Giovanni della Croce, con le sue rime sibilline. È di notte che Dio chiede.

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